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DDL ZAN: SESSO, GENERE E IDENTITÀ DI GENERE

14 Maggio 2021

Il disegno di legge Zan, attualmente in esame, è volto a contrastare la violenza e la discriminazione per motivi legati al sesso, al genere, all’orientamento sessuale, all’identità di genere e alla disabilità attraverso un’azione di carattere repressivo unita ad interventi dal contenuto preventivo e propositivo, in un’ottica di promozione dell’uguaglianza, come puntualmente descritto dalla nota di Stefano Ponti (v. https://www.retelenford.it/wp-content/uploads/2021/05/RETE-LENFORD-Il-ddl-Zan-spiegato-articolo-per-articolo.pdf).

Una delle questioni maggiormente dibattute, che il ddl involve, riguarda la qualificazione del bene giuridico protetto dall’intervento normativo: alcune rappresentanti del mondo femminista (peraltro minoritarie in termini di rappresentanza all’interno dell’associazionismo) hanno sostenuto l’inopportunità della equiparazione dell’identità di genere alle altre condizioni personali delle vittime di fenomeni discriminatori, per il timore che l’utilizzo di questa espressione nella norma possa annullare il dato biologico e comportare una asserita cancellazione e ad un appiattimento della differenza fra i sessi, finendo in qualche modo per pregiudicare alcuni diritti civili e sociali faticosamente conquistati dalle donne in decenni di battaglie.

Non è così: queste preoccupazioni sono giuridicamente infondate. Il sesso, il genere e l’identità di genere sono nozioni diverse, che evocano dimensioni differenti dell’identità personale e dell’esperienza individuale delle persone.

Il sesso può essere definito come il complesso delle caratteristiche anatomiche e fisiologiche che contraddistinguono i maschi dalle femmine ed è una nozione applicabile a gran parte delle specie viventi. Il genere connota invece qualunque manifestazione esteriore di una persona che sia conforme o contrastante con le aspettative sociali connesse all’essere uomo o donna: si tratta quindi dell’adesione o meno a quelle modalità di comportamento e di rappresentazione di sé che vengono convenzionalmente legate ad un sesso ovvero ad un altro. È un concetto che già Simone de Beauvoir pose al centro della sua riflessione e che aveva sintetizzato con la nota formula «on ne naît pas femme: on le devient»: essere donna non è un dato naturale ma il risultato di una storia collettiva e individuale composta da modelli di condotta ricorrenti e convenzionali legati alla femminilità.  L’identità di genere si riferisce, infine, alla percezione che ciascuna persona ha di sé come uomo o donna, che può o meno avere corrispondenza con il sesso attribuito alla nascita e che si declina, pertanto, nella consapevolezza individuale e soggettiva della difformità ovvero della conformità tra la propria dimensione pubblica ed esteriore e quella più intima ed interiore. Elaborando questi concetti a Judith Butler è giunta a decostruire la presunzione di poter assegnare a ciascuna persona un’identità sulla base del sesso biologico.

Le critiche di alcune rappresentanti del mondo femminista, che muovono dalle considerazioni sopra sinteticamente riportate, e riferite in particolare all’utilizzo del termine “identità di genere” sono difficilmente comprensibili dal punto di vista giuridico perché questa nozione non appare per la prima volta nel nostro ordinamento con la proposta di legge Zan ma essa è contenuta in numerosi atti normativi e pronunce giurisprudenziali del sistema giuridico italiano ed euro-unitario.

L’espressione ha per la prima volta fatto ingresso in un testo normativo con la Direttiva 2011/95 UE, sull’attribuzione della qualifica di rifugiato, recepita nel d.lgs. n. 18/2014, che fa espressamente riferimento al concetto di identità di genere, nella trattazione degli aspetti che possono costituire motivi di persecuzione ed è contenuta anche nella Direttiva 2012/29 UE, che istituisce disposizioni minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, nonché nella Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (c.d. Convenzione di Istanbul).

La giurisprudenza della Corte Costituzionale non si è limitata all’utilizzo dell’espressione ma ha riconosciuto con la sentenza n. 221/2015 il diritto all’identità di genere quale «elemento costitutivo del diritto all’identità personale, rientrante a pieno titolo nell’ambito dei diritti fondamentali della persona». Tale principio è stato poi ribadito nella sentenza n. 180/2017 che conferma che «l’aspirazione del singolo alla corrispondenza del sesso attribuitogli nei registri anagrafici, al momento della nascita, con quello soggettivamente percepito   e   vissuto   costituisca   senz’altro   espressione   del   diritto   al   riconoscimento dell’identità di genere».

Dal punto di vista del diritto non si tratta certo, quindi, di una nozione nuova: il riconoscimento giuridico di questa categoria semantica è già ampiamente avvenuto. E di ciò non si può che prendere atto.

Quanto al concetto di transessualismo, che alcune femministe vorrebbero utilizzare per sostituire quello di identità di genere, esso giuridicamente si riferisce al momento successivo alla conclusione del percorso di transizione e ha quindi una portata molto più limitata che determinerebbe l’ingiustificata esclusione di alcune vittime d’odio dall’ambito soggettivo di tutela: risulta peraltro difficile ipotizzare che l’autore di una condotta d’odio richieda i documenti di identità alla potenziale vittima prima di commettere il reato. Il richiamo a questo concetto all’interno della normativa penale specialistica di cui al ddl Zan, in un’ottica di promozione dell’uguaglianza e della pari dignità di ogni persona, non appare, quindi, opportuno.

L’idea di “genere”, che attribuisce importanza allo spazio di autodeterminazione individuale in una prospettiva di rifiuto degli stereotipi e l’idea di “identità di genere”, che valorizza la fluidità delle appartenenze, coesistono e non si pongono in alcun modo in contrasto con quella di “sesso” (che è contenuta nel testo approvato alla Camera), che mette invece in primo piano la dimensione biologica.  Il riconoscimento giuridico di ulteriori sfere della personalità e dell’identità personale (nella sua portata sessuale) non implica certo la cancellazione di quegli aspetti che sono già protetti dal diritto.

In occasione della discussione alla Camera della proposta di legge Zan alcune rappresentanti di certe associazioni femministe hanno avanzato questioni, che vengono riproposte oggi, dopo la calendarizzazione del ddl in Commissione al Senato, con identico contenuto e che riguardano l’asserita autorizzazione al cambiamento di sesso che, in caso di approvazione della legge, potrebbe ottenersi con una semplice presunta autodichiarazione sulla base dell’inclinazione del momento. Queste considerazioni sono false. Il disegno Zan non interviene in alcun modo sulla legge 164/1982 che- sebbene sia una legge datata e non del tutto adeguata alle esigenze delle persone trans e che sarebbe quindi opportuno modificare- continuerebbe a regolare la rettificazione anagrafica del sesso.

La resistenza di quelle associazioni femministe radicali trans escludenti (c.d. femministe TERF – Trans Exclusionary Radical Femminists), contrarie alla legge per il timore di un arretramento dal punto di vista dell’equità e dell’uguaglianza sostanziale – che godono, peraltro, di una sovrarappresentazione rispetto alla loro effettiva diffusione nei movimenti per i diritti delle donne e delle persone LGBTI (legata anche alla comunanza di obiettivi, in questa circostanza, rispetto al mondo del conservatorismo cattolico di destra) – è, quindi, priva di fondamento giuridico.

L’introduzione, nella proposta di legge Zan, di queste nozioni all’interno di una norma penale di protezione riguarda le modalità con cui gli autori e le autrici delle condotte definiscono le vittime d’odio e non invece come le stesse si qualificano: l’idea è, cioè, quella di rendere il ventaglio di tutele il più ampio possibile, proteggendo tutti gli aspetti dell’identità personale nella sua dimensione sessuale. Sotto questo aspetto, infatti, va ricordato che il disegno di legge Zan riguarda il movente d’odio e colpisce quindi le ragioni specifiche poste alla base di una condotta e correlate alle condizioni personali della vittima.

Le ragioni giuridiche alla base dell’utilizzo delle nozioni di genere e identità di genere, nel testo approvato alla Camera della proposta di legge Zan, sono quindi ampliamente consolidate. I discorsi d’odio possono ricollegarsi a matrici che esulano e non si esauriscono nelle caratteristiche anatomiche e biologiche: qualora la legge non prevedesse l’estensione della norma anche al genere ed all’identità di genere, resterebbe, quindi, un vuoto normativo nell’ordinamento che priverebbe di copertura, dal punto di vista della repressione penale, alcuni fenomeni d’odio.

Francesca Romana Guarnieri,

Avvocatura per i diritti LGBTI – Rete Lenford

Scarica il documento: DDL ZAN – Francesca R. Guarnieri