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Il paradiso può attendere

9 Agosto 2008

 

Posta in questi termini, la questione concernente l’opportunità di introdurre nel nostro ordinamento un istituto per la tutela dei conviventi di fatto, scolora in una mera diatriba terminologica. E per certi versi, considerare le due posizioni in campo come mere impuntature nominalistiche sarebbe tranquillizzante. Infatti, pur cambiando denominazione, la carica innovativa del progetto di legge sul Patto civile di solidarietà rimarrebbe inalterata.
E’ evidente, invece, che non si tratta di una questione nominalistica e che scegliere tra le due opzioni non sia affatto indifferente sul piano pratico.

 

Il disegno politico che si cela dietro la proposta dei Contratti di convivenza solidale è chiaro: riconoscere una qualche forma di tutela delle convivenze – dimostrandosi così sensibili verso una pressante domanda sociale – e nello stesso tempo prendere nettamente le distanze nei confronti di un sia pur minimo riconoscimento delle unioni omosessuali.
Tale presa di posizione non appare né sorprendente né originale.
Con l’attenzione vigile che da oltretevere si riserva costantemente a quanto accade nel mondo, il Prefetto della dottrina della fede, l’allora Signor Joseph Cardinal Ratzinger, il 3 giugno 2003 esprimeva le sue "razionali" Considerazioni circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali, arrivando a conclusioni coerenti con la propria visione antropologica, fondata sull’esclusivo riconoscimento della famiglia eterosessuale fondata sul matrimonio.
Il documento rinvenibile sul sito della Santa Sede, dice in buona sostanza: a) che non bisogna discriminare le persone omosessuali; b) che il matrimonio è solo quello eterosessuale perché l’unione matrimoniale è per sua natura finalizzata alla procreazione; c) che non si può far luogo ad alcun riconoscimento delle unioni omosessuali per diverse motivazioni di ordine razionale, che l’attuale Pontefice non manca di illustrare dettagliatamente, confondendo spesso la teologia con il diritto, e la morale con la psicologia.
Le recenti esternazioni dei vertici della Chiesa italiana in materia – va sottolineato – sono assolutamente in sintonia con le posizioni espresse da Benedetto XVI nel 2003. Ma è bene altresì notare come le parole del Cardinal Vicario e la lettera pastorale di Ratzinger non siano semplice esercizio della libertà di parola. Non serve essere "laicisti" (sic!) per riscontrare la sussistenza di un dato di fatto: l’uso sempre più incisivo da parte della Chiesa di quella che un tempo si definiva potestas indirecta in temporalibus, il mezzo che la Santa Sede usa per "guidare" la società, anche dopo la dismissione del Triregno. 

Che quanto si va sostenendo non sia frutto di malevolenza "laicista", è dimostrato dalle parole dell’ex Prefetto della dottrina della fede, contenute nel documento prima ricordato.
Ecco il passaggio della lettera interessante ai nostri fini: "Se tutti i fedeli sono tenuti ad opporsi al riconoscimento legale delle unioni omosessuali, i politici cattolici lo sono in particolare, nella linea della responsabilità che è loro propria. In presenza di progetti di legge favorevoli alle unioni omosessuali, sono da tener presenti le seguenti indicazioni etiche. Nel caso in cui si proponga per la prima volta all’Assemblea legislativa un progetto di legge favorevole al riconoscimento legale delle unioni omosessuali, il parlamentare cattolico ha il dovere morale di esprimere chiaramente e pubblicamente il suo disaccordo e votare contro il progetto di legge. Concedere il suffragio del proprio voto ad un testo legislativo così nocivo per il bene comune della società è un atto gravemente immorale".
E l’ammonizione a quanto pare non è rimasta inascoltata. Non si tratta di fare dietrologia. Tali notazioni sono importanti per comprendere il contesto in cui nasce una proposta che, se sostenuta, rischia di affossare definitivamente il progetto di legge sul PaCS ovvero di far scemare il suo significato sociale e culturale

Eppure, al di là di qualsiasi valutazione politica, è nel merito che la (contro)proposta dei Contratti di convivenza solidale non convince. Si suggerisce di introdurre nel codice civile un contratto che regoli la convivenza tra due o più persone, senza prevedere alcuna forma di registrazione.
I (contro)proponenti amano ribadire che si tratta di contratti di diritto privato, come se questo fosse un elemento distintivo rispetto al PaCS. L’uso ossessivo dell’attributo "privato" assolve – probabilmente – una funzione retorica. Serve a rassicurare, a distinguere nettamente il nuovo istituto dal matrimonio. Anzi, proprio per non essere fraintesi, tengono a precisare che tale contratto non deve assolutamente essere iscritto in nessun registro anagrafico (formalità troppo simile a quella riservata all’atto matrimoniale e quindi da evitare), perché si tratta (appunto) di un "contratto di diritto privato".
Ma che cosa desta maggiore perplessità nei Contratti di convivenza solidale? Semplice: l’assoluta inutilità di uno strumento giuridico siffatto nella vigenza dell’attuale Codice civile.
Forse non tutti sanno che i privati possono regolare i loro rapporti, stipulando contratti diversi da quelli espressamente nominati nel codice civile e nelle leggi complementari. E ciò è possibile, purché tali accordi abbiano un contenuto patrimoniale e purché siano funzionali alla soddisfazione di interessi meritevoli di tutela (art. 1322 c.c.). Si tratta dei c.d. contratti atipici. Esempi tra i più noti sono il leasing, il factoring, la sponsorizzazione, il contratto di parcheggio e così via. Tutte figure contrattuali queste, che nel codice civile non sono regolate. Del resto, fior di avvocati in tutta Italia da anni redigono contratti per regolare gli aspetti patrimoniali delle convivenze (etero o omosessuali che siano), a suon di laute parcelle. Il che induce a riflettere sulla reale (e disinteressata) convinzione con cui alcuni di loro si sono espressi contro i progetti di legge in materia. 

Un "contratto di convivenza solidale" si può stipulare già oggi, senza approvare una legge ad hoc, purché abbia un contenuto patrimoniale e purché i contraenti siano avvertiti del fatto che quel contratto non avrà alcun effetto nei confronti dei terzi (ossia gli altri privati, oppure lo Stato), in virtù dell’art. 1372 c.c. che limita alle parti contraenti gli effetti di un determinato accordo.
Le parti del contratto in questione non potranno, per esempio, beneficiare automaticamente di diritti come la successione nel contratto di locazione o la pensione di reversibilità, ovvero essere equiparati fiscalmente alle coppie unite in matrimonio. 

La novità del PaCS – nella sua formulazione attuale – sta invece proprio nel fatto che: a) eccezionalmente un contratto potrà spiegare effetti nei confronti dei terzi; b) potrà avere un contenuto non solo patrimoniale, ma anche non patrimoniale (si potranno prevedere, infatti, obblighi di aiuto e sostegno reciproco tra le parti, oltre a dare indicazioni sulle decisioni di fine vita, rispetto alle quali l’altro contraente sarà legittimato a pronunciarsi in caso di perdita della capacità di intendere e volere, e così di seguito).
Ma se un certo contratto deve avere effetto nei confronti dei terzi, è bene che questo contratto possa essere conosciuto dai terzi. Da qui la necessità di una sua registrazione. Se infastidisce l’annotazione del patto in un qualsiasi registro anagrafico, si potrà immaginare un registro ad hoc, anche se ciò sembra confliggere con il principio della semplificazione dell’attività amministrativa inaugurato dalle leggi Bassanini.
Il PaCS vuole essere uno strumento di tutela per quei cittadini che non vogliono o non possono contrarre matrimonio, per quei
cittadini che condividono un progetto di vita, che costituiscono una famiglia senza fondarla sul matrimonio, che realizzano se stessi in una formazione sociale luogo di reciproco sostegno, connotata da un rapporto affettivo e sessuale. 

Le "altre forme di convivenza", che pure alcuni statuti regionali riconoscono con espressione vaga e per certi versi ambigua, non sono oggetto di questo progetto di legge.
La ragione è presto detta: nel rapporto di coppia vi sono esigenze di carattere personale e patrimoniale diverse da quelle delle comunità di tipo familiare. Non si può mettere sullo stesso piano la convivenza di un gruppo di studenti e quella di un ragazzo e di una ragazza che intendono sperimentare per un certo periodo la quotidianità della vita di coppia prima di convolare a giuste nozze. Nel caso di un gruppo di studenti, ad esempio, non avrebbe senso prevedere una norma che sancisca il diritto di astensione dal deporre in tribunale contro il proprio convivente, o che conceda ai conviventi le medesime opportunità di una coppia coniugata per quanto riguarda l’accesso al mondo del lavoro.
E’ evidente che la diversità degli interessi da tutelare in ciascun caso, esige che si tengano distinte le differenti situazioni. Ben venga, allora, una legislazione sulle "altre forme di convivenza", ma con un progetto di legge separato, come è avvenuto in Catalogna con le "unioni di mutuo aiuto". Un progetto di legge che evidenzi – come si è cercato di fare con il PaCS – le peculiarità di una certa situazione di fatto e proponga delle serie e concretamente realizzabili risposte alle domande di giustizia che emergono dal tessuto sociale.

 

(il saggio è apparso originariamente nella rivista Critica liberale, 2005, vol. XII, n. 115, pp. 111-112)