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Matrimonio tra persone dello stesso sesso: prime riflessioni su una sentenza che farà discutere

10 Settembre 2008

La sentenza della Corte d’Appello di Firenze in oggetto, è stata definita come "un evento di portata storica" in ordine ad una tematica, quella dei matrimoni omosessuali, che nel nostro ordinamento continua a trovare ostacoli all’attribuzione di qualsivoglia rilevanza giuridica, malgrado il mutamento della realtà sociale ed i plurimi inviti rivolti dalla Comunità Europea ai singoli Stati membri a realizzare anche sul piano degli istituti giuridici familiari una parità di diritti per le persone dello stesso sesso.

Sebbene, infatti, ormai da tempo, si sia presa coscienza che, nel persistente silenzio legislativo, il solo modo per ottenere una qualche protezione e riconoscimento per le unioni tra persone dello stesso sesso, è ricorrere all’alternativa via giurisdizionale, è la prima volta, nella storia del diritto italiano, che tale questione viene posta all’esame di un collegio di giudici quale è la Corte d’Appello.

In particolare la Corte di Firenze si è trovata a dover decidere sul reclamo congiunto avanzato, il 14 novembre scorso, da Matteo Pegoraro ed il suo compagno Francesco Piomboni, avverso il decreto motivato emesso in sede di volontaria giurisdizione dal Tribunale Ordinario di Firenze, giudice Dott.ssa Papait, con il quale è stato respinto il ricorso dagli stessi presentato ex art. 98 c.c., 95 DPR 396/2000 e 737 c.p.c., avverso l’asserito illegittimo e discriminatorio rifiuto dell’ Ufficio di Stato Civile del Comune di Firenze di effettuare le loro pubblicazioni matrimoniali ritenendole contrarie all’ordinamento italiano ove, come si evincerebbe dalle norme del codice civile, il rapporto di coniugo è inteso solo tra soggetti di sesso diverso.

I ricorrenti muovendo da tale affermazione, hanno proposto reclamo alla Corte d’Appello di Firenze assumendo, a motivo d’impugnazione del reclamo, che il Tribunale ha errato, appunto, in primo luogo, nell’affermare, a condivisione di quanto sostenuto dall’Ufficio di Stato Civile, che la nozione di matrimonio ricavabile dalla normativa positiva presuppone la diversità di sesso tra i nubendi; in secondo luogo che, posto l’assenza di una normativa in materia, non necessariamente il legislatore deve dare rilevanza giuridica ai mutamenti del costume e della realtà sociale ma, anzi, è la giurisprudenza che deve svolgere una funzione promozionale rispetto ai diritti delle minoranze discriminate così colmando la lacuna normativa; in terzo luogo, ma non ultimo che, anche qualora sussistesse un effettivo divieto nell’ordinamento italiano per le persone dello stesso sesso di contrarre matrimonio, esso risulterebbe contrario ad uno dei principi fondamentali della Costituzione quale è il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost.

La Corte d’Appello, avanti alla quale il Comune di Firenze si è costituito esponendo nuovamente le motivazioni del suo diniego alla richiesta di pubblicazione delle nozze, ha inusualmente e, quindi, inaspettatamente, disposto l’audizione delle parti, dimostrando, come mai era accaduto fino ad ora, il proprio interesse, più che ad addivenire ad una sentenza scontata ed immediata, ad affrontare con attenzione, serietà e professionalità una questione tanto delicata quanto attuale.

Il Collegio fiorentino, pur rigettando il reclamo, nelle sue motivazioni ha, infatti, dimostrato ancora una volta originalità nell’affrontare la vicenda sottoposta al suo esame, evidenziando, preliminarmente, che la questione non era tanto quella di affermare, nuovamente, che l’ordinamento italiano non prevede una disciplina positiva delle unioni tra persone dello stesso sesso, quanto piuttosto se, posta tale assenza di previsione normativa, fosse ammissibile o meno un’estensione tout court della disciplina positiva esistente con riferimento alle unioni tra persone di sesso diverso, anche a quelle tra persone dello stesso sesso; nonché se, l’eventuale impossibilità di una tale estensione, costituisse o meno violazione dei principi costituzionali, con particolare riferimento al principio d’uguaglianza, e di quelli sovranazionali europei.

Per rispondere al primo quesito, il Collegio è partito dalla considerazione che l’istituto matrimoniale, essendo un istituto giuridico di diritto pubblico e non essendo inserito nella prima parte della Carta Costituzionale ( Principi Fondamentali Artt. 1 – 12 Cost ), sebbene nell’art. 29 Cost. quale riflesso del principio d’uguaglianza all’interno del matrimonio, non è qualificabile ne’ come istituzione pre-giuridica, ne’ come diritto fondamentale dell’individuo, e come tale costituisce un limite all’intervento giurisdizionale, la cui sostituzione al legislatore è ammessa, non per disciplinare ciò che non è previsto dalla normativa positiva creando così nuovi diritti, ma solo per tutelare, alla luce delle norme costituzionali, quelli già esistenti.

Secondo la Corte, cioè, essendo nel caso in specie in discussione"semplicemente un istituto che disciplina determinati effetti che il legislatore tutela come diretta conseguenza di un rapporto di convivenza tra persone…", convivenza che, se attuata attraverso un istituto giuridico, produce effetti che trascendono i rapporti tra le parti, "…tale disciplina ha una valenza pubblica ed è esclusivo compito del legislatore, ovvero sia del corpo sociale attraverso i propri legittimi rappresentanti, dare nuova forma giuridica all’evoluzione del costume creando nuovi diritti".

Una tale conclusione, sostiene la Corte, non risulta essere, peraltro, contraria neanche all’Ordinamento giuridico sovranazionale, dal momento che sia la Comunità Europea, sia la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, in materia matrimoniale, si limitano a dettare i loro principi rimandando ai singoli stati membri l’adeguamento delle legislazioni nazionali.

Accertata l’impossibilità di estendere tout court  la disciplina positiva delle unioni tra persone di sesso diverso a quello dello stesso sesso, la Corte ha affrontato, pronunciandosi anche qui negativamente, il secondo quesito, ovvero se la disciplina dell’istituto matrimoniale, inapplicabile alle coppie dello stesso sesso, costituisca o meno violazione del principio d’uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione.

Essa ha basato il proprio convincimento sull’interpretazione del principio di uguaglianza, propria dalla stessa Corte Costituzionale (cfr. Corte Cost., sentenza n. 340/2004), in virtù della quale si determina violazione di tale principio solo quando situazioni identiche sono trattate in modo ingiustificatamente diverso mentre tale contrasto non si ha quando alla diversità di disciplina corrispondono situazioni non sostanzialmente identiche. Ciò posto, nel caso di specie, una tale violazione non è configurabile dal momento che il problema non è l’esistenza di una disciplina positiva che limita soltanto alcuni soggetti nell’esercizio dei diritti fissati per la generalità dei consociati ma, piuttosto, la mancata previsione da parte dell’ordinamento giuridico italiano della possibilità stessa di disciplinare le unioni tra persone dello stesso sesso attraverso l’istituto pubblicistico del matrimonio. Secondo la Corte, quindi, manca il presupposto per applicare il principio di uguaglianza: solo qualora la disciplina dell’istituto matrimoniale avesse previsto espressamente il divieto per le persone dello stesso sesso di ricorrervi, si sarebbe potuto ritenere applicabile e violato tale principio. Così, però, non è: in Italia non c’è un espresso divieto per le coppie omosessuali di contrarre matrimonio ma, allo stesso tempo, il ricorrere nelle norme del codice civile dei termini "marito e moglie" e la loro interpretazione nel tempo strettamente collegata all’epoca in cui esso è stato scritto ed in cui non era neanche immaginabile un matrimonio tra persone dello stesso sesso, ha creato nel tempo, condizionata probabilmente dall’ingente rilievo che la Chiesa Cattolica ed il suo pensie
ro hanno nella realtà italiana, la comune convinzione dell’effettiva esistenza di un tale divieto.

Se così è, se un espresso divieto di contrarre matrimonio tra persone dello stesso sesso non c’è, allora, basterebbe, a detta della stessa Corte d’Appello, che il legislatore si facesse interprete del mutato contesto sociale intervenendo, così come hanno fatto alti paesi europei e non, con una semplice modifica terminologica: sostituire ai termini "marito e moglie" quello di "coniugi" nel Codice Civile attuerebbe una vera e propria rivoluzione dei diritti e dei costumi capace di portare l’Italia, a fianco di paesi quali la Spagna, il Belgio, i Paesi Bassi, il Canada e, di recente anche la California, in un percorso storico diretto a far cessare le discriminazioni basate sulle preferenze sessuali.

In un’Italia dove non si riesce neppure a far approvare una legge sulle unioni civili, aspirare ad un tale risultato sembra, invero, quanto mai illusorio ed utopistico. Ecco perché, malgrado il reclamo presentato da Matteo Pegoraro e Francesco Piomboni sia stato respinto, la sentenza della Corte d’Appello di Firenze, costituendo il primo caso di esame collegiale della questione delle unioni gay ed avendo riconosciuto che il Codice Civile non contiene il divieto espresso per due persone dello stesso sesso di unirsi in matrimonio, costituisce, comunque, un successo per quanti lottano per l’abolizione di ogni discriminazione basata sull’orientamento sessuale auspicando l’effettiva parità sociale di tutti cittadini così come sancita dalla nostra Costituzione.

 

 

Allegati

(luned_354 5 novembre 2007_jpg).pdf
CDA_Firenze_628-07.doc