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Quel che non ti DI.CO.

11 Luglio 2008

Leggere questo disegno di legge è per un giurista come tornare ragazzino ed andare a vedere per la prima volta un film d’azione, pieno zeppo di suspence ed effetti speciali in stop motion. Quando l’infuocata polemica politica sulle coppie di fatto sarà ormai un lontano ricordo, forse ci sarà modo di esaminare con più calma il disegno di legge licenziato dal Consiglio dei Ministri. Per intanto, in questa prima puntata, provo a fissare alcuni punti fermi dal punto di vista del freddo tecnicismo giuridico; sappiamo bene che la tecnica non è certo avulsa da scelte riconducibili a progetti, valori e principi, ma anzi ne costituisce strumento di realizzazione. E allora vediamo che cosa si è realizzato con i DICO, e che cosa i DICO non dicono.

Il titolo, “Diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi”, potrebbe far piacere a molti: eccolo, finalmente, il diritto leggero, il diritto minimo, quello che parla alle e delle persone, non degli istituti, né tanto meno delle istituzioni. E’ il diritto di famiglia del futuro, quello che si lascia indietro le rigidità dello status e consente il più ampio dispiegarsi dell’autonomia delle persone, quello di cui ci parlano i DICO? Oppure è talmente ‘minimo’ che di diritto di famiglia neppure si può parlare, come infatti auspicavano molte tesi reazionarie?

Vediamo la natura dell’unione: secondo l’art. 1 (gelidamente rubricato ‘ambito e modalità di applicazione’) affinché si possa essere titolari di diritti doveri e facoltà devono sussistere: vincoli affettivi, convivenza stabile, assistenza e solidarietà materiale e morale. Inoltre, non devono sussistere precedenti matrimonio e determinati vincoli di parentela o di altra natura.
Innanzitutto un’osservazione stilistica: se di diritti dei singoli si è sempre parlato, è tuttavia emblematico che la prima parola del disegno di legge sia “due”, anzi “due persone”. Come creare la tensione, la suspence fin dall’inizio!
Ci sono leggi che scolpiscono, plasmano, organizzano, prevengono, garantiscono; e, nell’ambito di queste finalità, attribuiscono determinate posizioni soggettive. Non è perlomeno audace, singolare, una legge che semplicemente serva ad attribuire ‘diritti, doveri e facoltà’? Leggi che attribuiscono e basta, ne conosco poche. E’ come se ci fosse un sottotesto sempre presente ma mai nominato, questa idea della coppia, della coppia convivente, della coppia sessualizzata, della coppia coniugale ma non sposata, che non può essere oggetto, non dico di considerazione, ma di rappresentazione alcuna. Ne è riprova il fatto che il disegno di legge non affronta minimamente uno dei problemi centrali della convivenza informale, quello del regime degli acquisti compiuti durante il rapporto e quello, ad esso connesso, della divisione dei beni al momento della rottura del rapporto. Che cos’è questa morigeratezza legislativa, questo self-restraint così maldestramente celato da risultare perfino assordante, se non il frutto di un’anacronistica ipocrisia? Un’ipocrisia talmente grande e scomoda da aver posto al centro di questo d.d.l. non le persone, singole o in coppia, ma diritti doveri e facoltà, meri costrutti giuridici, che però divengono, in assenza di un soggetto, errabondi, vacui fantasmi in cerca d’autore.

Capisco, allora, perché la prima domanda che mi sono fatto corrisponde, stranamente, alle preoccupazioni del Vaticano: perché una legge ‘attributiva’ di diritti e facoltà a persone che convivono? Beh, la domanda è sorta spontanea nel momento in cui vedo mancare qualsiasi tipo di indicazione su quello che la convivenza rappresenta esemplifica e manifesta, sul ruolo sociale dei valori che ne stanno alla base, sulle funzioni familiari che consente di esplicare, sulle sicurezze che può garantire, sulle potenzialità che incorpora. Ecco, il corpo, il dinamismo, il tentativo di progettare vite legami ed intrecci, tutto questo non è detto mai in questo disegno di legge…Che c’entrano i diritti dei conviventi, allora sì che ci si può chiedere, se di questi conviventi la legge, plasmando e valorizzando, limando le asperità e sostenendo le scelte individuali, la creazione di rapporti, non riconosce la piena cittadinanza intesa come attiva partecipazione allo spazio pubblico, alla collettività, alla polis? I diritti e le facoltà, gettati al di là del muro come briciole per i cani, non servono a nulla e sono, anzi, potenzialmente molto perniciosi.

Ma ancora sul tipo di rapporto: non può essere ‘iscritta’ una dichiarazione tra chi abbia legami di tutela e curatela, o se uno sia l’amministrazione di sostegno dell’altro. Perché mai questo divieto? C’è anche un’antinomia: l’art. 408 c.c. prevede che l’amministratore di sostegno possa essere scelto dall’interessato, in previsione della propria eventuale futura incapacità. Il convivente stabile non potrà quindi essere scelto come amministratore di sostegno? Ed in mancanza di scelta, come si giustifica il fatto che il giudice tutelare ‘preferisce’ il coniuge o la persona stabilmente convivente? Siamo veramente allo scontro aperto tra due opposte concezioni: lì il convivente come risorsa, come aiuto, come vicinanza e speranza nella difficoltà, insomma come compagno di una vita (nella buona e nella cattiva sorte…); qui, nei DICO, uno strano ibrido, che presta ‘assistenza e solidarietà materiale e morale’ ma non può essere amministratore di sostegno…

Ma continuiamo: la convivenza è provata dalle risultanze anagrafiche. Il c. 2 dell’art. 1 riferisce unicamente di un’asettica ‘iscrizione’, di ‘mutamento’ e di ‘cancellazione’. Ma di che cosa stiamo parlando, di un’ipoteca? E’ così che si dovrebbe capire come nascono amori, coppie, famiglie, patrimoni cene con amici gite al mare mutui casa ed auto a rate? In altri termini, come si costituisce il rapporto, come si svolge, come si scioglie? Un’iscrizione e una cancellazione: adempimenti completamente irrelati, solipsistici, esistenzialmente secchi ed avvizziti, come se non dovessero essere connessi ad alcun fondamentale bisogno umano, figurarsi se di due persone insieme! Per non parlare della ridicola soluzione della raccomandata. Su questo molto si è già detto. Ebbene, si sappia che gli avvocati negli studi legali gongolano già, in previsione del futuro contenzioso sulla data certa per l’opponibilità ai terzi…varrà il principio della spedizione? Quello della ricezione? Da quando potrà dirsi “iscritta” la famosa “dichiarazione”, se non avverrà “contestualmente”?

Per finire: la convivenza. Essa deve essere “attuale” affinché si possano esercitare i diritti e i doveri previsti dalla legge. Rispuntare l’odiosità di questa legge, che non si propone un obiettivo, quello di riequilibrare, di mediare, di arbitrare, ma che è semplicemente ‘attributiva’, senza una base, senza uno zoccolo, senza un perché chiaramente e sinceramente esplicitato. Il terzo comma dice che la convivenza deve esserci non solo al momento della famosa “iscrizione”, ma che deve essere attuale al momento in cui si intenda esercitare i diritti e le facoltà.

Ecco, mi sembra questo il punto da enfatizzare. A cosa serve la legge? La risposta sta in questo: a consentire il (gravoso e limitato) esercizio di alcuni sparuti diritti e facoltà. Ma di diritti e facoltà senza radici, senza perché; fini a sé stessi, senza un soggetto, senza un agire. E’ come se si fosse detto: esercita questi benedetti diritti basta che tu stia zitto, che non ti manifesti, che non ti nomini. E’ la narrazione del silenzio, è la costruzione dell’altro e del diverso, è il potere delle (non) definizioni che costruisce e rafforza i ghetti, i muri, il controllo. E questo è forse il ritorno del boomerang, dopo un discorso dei movimenti GLBT centrato tutto sui diritti e poco sulla critica, incapace d
i mettere seriamente in discussione le strutture familiari più sedimentate, che alimentano l’eteronormatività, il paternalismo, l’oppressione.
Allora, la convivenza attuale si diceva. Bene: a ben vedere c’è più unità qui, nella tanto odiata convivenza, che nel matrimonio. I coniugi possono anche non convivere, avere domicili diversi, vedersi nei weekend. I conviventi devono stare sempre assieme, abitare allo stesso indirizzo. Il matrimonio non si rompe, se marito e moglie non vivono assieme per tante ragioni; né si rompe se si separano, finché non decidano di divorziare. Se sei separato, sei sempre sposato. Cioè: puoi essere sposato anche se vivi completamente un’altra vita rispetto a quella del coniuge. Nella convivenza ci deve essere un’unità più forte: senza coabitazione, non c’è il rapporto che sta alla base dell’esercizio dei diritti dei doveri. Come se non esistessero coppie di conviventi che abitano in case diverse, in città diverse, in Stati o continenti diversi, che fanno i weekend o le vacanze insieme, che si vogliono bene anche senza condividere un tetto, sempre.

Ebbene, diciamo le cose come stanno: secondo il dettato dell’art.1, nei suoi vari commi, è la convivenza debitamente “iscritta” che innesca la possibilità di esercizio di diritti e facoltà. La convivenza è talmente importante che deve essere attuale, vale a dire sempre presente, specialmente al momento in cui si vuole esercitare queste possibilità. Ma riflettiamo: nel mondo dei fatti sociali giuridicamente rilevanti non è di per sé il vivere sotto lo stesso tetto che giustifica l’attribuzione di posizioni di vantaggio (tranne che nei casi specificamente e strettamente connessi a tale circostanza, come quello del diritto all’abitazione; lo disse già la Corte costituzionale). E’ il progetto di vita in comune, è l’intrecciarsi delle esperienze e dei desideri, delle paure, dei tentativi e dei patrimoni, è la comunione di vita. La coabitazione non è che una delle molte possibili epifanie di questo, che è un aspetto centrale nella vita di molte persone, e che è quello che dovrebbe veramente importare: è condiscendenza far finta che sia la coabitazione l’elemento caratterizzante. Se così fosse, potrei fare l’iscrizione con il mio gatto: dopotutto, abbiamo reciproci vincoli affettivi e di solidarietà, e viviamo insieme! Ovvia, diciamolo: riconoscere questo significa ammettere che non esiste alcuna apprezzabile differenza tra coppie di fatto e coppie sposate. Perché in entrambe si convive per integrare due vite, non tanto per convivere. E questa è un’altra cosa che i DICO non dicono…

Si potrebbe aggiungere molto altro: i DICO non dicono cosa succede se c’è un precedente contratto di coabitazione. Sarà vietata l’iscrizione ex art. 2 lett. c)? I DICO delegano alle strutture ospedaliere e di assistenza la disciplina delle modalità di esercizio del diritto di accesso del convivente. Ma che fa la legge, dà una mera direttiva di principio senza porre alcun criterio guida? Senza stabilire in modo chiaro e dettagliato i principi cui le amministrazioni si devono attenere?
I DICO si inventano procedure marziane, come il processo verbale alla presenta di tre, testimoni, in caso di nomina del rappresentante per le decisioni in materia di salute. Anche qui non basta la famosa iscrizione, già avvenuta: no, serve un altro atto scritto, oppure una verbalizzazione quasi coram populi…I DICO parlano del lavoro nell’impresa del convivente e del permesso di soggiorno per il cittadino extracomunitario. In entrambi i casi esistono già norme specifiche: l’art. 230 bis c.c., il testo unico sull’immigrazione. Non sono menzionati. Non sono modificati. Un decreto legislativo molto importante non è neppure citato ritualmente, con tutti i riferimenti per esteso. Anche qui si vede all’opera il sottotesto inespresso, secondo il quale tra convivente e coniuge neppure una giustapposizione lessicale nella stessa disposizione è possibile.

Arriviamo allora ai diritti successori ed all’obbligo alimentare. Anzi, proprio a quest’ultimo. Gli alimenti ex art. 12 non si capisce se siano gli alimenti ex art. 433 c.c., o forse l’assegno divorzile di mantenimento, o un nuovo, fantastico mostro. Vediamo. Gli alimenti sono prestati: al convivente, in caso vi sia stato di bisogno, oltre la cessazione della convivenza, con precedenza sugli altri obbligati, per un periodo proporzionato alla durata della convivenza. Che succede se lo stato di bisogno interviene durante la convivenza, invece che dopo la sua cessazione? Non esiste un obbligo di assistenza (che è solo un presupposto per il famoso esercizio dei diritti), né di contribuzione: a ben vedere, non esiste alcun obbligo tra conviventi…Un consiglio: se le cose vanno male economicamente, molto male, non tentate di restare insieme sperando che esista un dovere dell’altro di sostentarvi. Tanto vale rompere subito, almeno la legge mi dà diritto agli alimenti. Ma avrei comunque potuto chiederli agli altri obbligati ex art. 433 c.c….Non è di alimenti che c’è bisogno, ma della regolazione dei molti aspetti patrimoniali determinati dall’intreccio delle rispettive sostanze, di cui il mantenimento post-separazione è solo un esempio. V’è inoltre da chiedersi perché il convivente sia tenuto a prestare gli obbligati con precedenza rispetto ad altri obbligati. Allora qui c’è un vincolo più forte anche rispetto ai legami di sangue, proprio come avviene per il coniuge, altroché legame effimero ed instabile! Se poi non vi sia stato di bisogno, si deve dedurre che la legge faccia propria la legge della giungla: il più forte andrà per la sua strada, l’altro piangerà miseria. Né potrà sperare di ereditare qualcosa, visto che la convivenza non è più attuale.
E’ questa la crudeltà peggiore: pur di non nominare il rapporto di coppia tra i conviventi, la legge calpesta ed ignora la propria missione, il proprio compito, quello di predisporre reti di sicurezza, vie di fuga, rimedi e soluzioni. Questa è un legge che cinicamente (ma magnanimamente secondo le intenzioni) concede, ma che non giuridifica. Come è stato scritto,

Giuridificazione significa (…) garanzia: apprestamento di tutela e quindi giurisdizionalizzazione, possibilità di difendere la propria soggettività o qualunque aspetto di essa, dinanzi ad un giudice, civile, amministrativo, penale. Significa in altri termini riportare nella società – sotto forma di apparati della giustizia – il conflitto che precedentemente si risolveva in un rapporto di forza tra singoli o singolo e gruppo (o Stato), in cui il singolo più debole, o perché mero individuo o perché socialmente emarginato, doveva soccombere (Alpa, Status e capacità: la costruzione giuridica delle differenze individuali, Laterza, Roma-Bari 1993, p. 44-45).

Nulla di tutto questo. Ma di crudeltà ve n’è ancora, ed ancora più subdole. Ma prima una nota di leggerezza: è geniale il primo comma dell’art. 13, il quale si preoccupa di informarci che le leggi sulla convivenza si applicano ai conviventi. Ma che corsi di diritto ha seguito chi ha scritto queste insensate ovvietà?
Tralasciamo e passiamo velocemente oltre. Se la convivenza è iniziata da tempo, lo si può dire e lo si deve provare (suppongo al momento dell’“iscrizione”). Questa prova però si può dare solo entro nove mesi dalla data di entrata in vigore della legge. Il che val quanto dire che se io convivo da vent’anni e decido di “iscrivermi” un anno dopo l’entrata in vigore della legge, tutto si azzera e ricomincio da capo. Spaventoso, tenuto conto che tutti i diritti previsti dalla legge sono subordinati al decorso del tempo. Però c’è ancora da meravigliarsi: non si può dare la prova che la convivenza era già in essere prima della legge se si tratta dei diritti di cui all’art. 10. Di che diritti si tratta? Ma di pensioni, ovvio no! Il che val quanto dire che non si riconosce la pensione a chi sta
insieme da anni, o da decenni: per loro, come per tutte le nuove coppie, si ricomincia a contare da zero. Tra tutte, questa è la dimostrazione più acuta del cinismo spietato di questa legge, che antepone considerazioni di bilancio alla cura ed al sostegno delle persone. Delle persone che non hanno, delle persone per cui una pensione è un’ancora di salvezza, mica come per certi parlamentari che navigano tra rendite e vitalizi…Siamo all’anno zero…annus horribilis!

Il quarto comma dell’art. 13 è assolutamente incomprensibile. Ma il quinto ed il sesto si capiscono benissimo. Primo, chi era sposato ed inizia a convivere perde tutto: mantenimento, eredità e pensione. Un invito a restare single? O, magari, a non divorziare proprio? Misteri della fede. Ed il sesto comma, un raro esempio di prosa, chiude la partita con un affettazione ed un tono arrogante e superbo che lo rende il più antipatico di tutti: non si parla di scioglimento dell’unione, con tutto quello che esso comporta in termini di abbandono sconfitte fallimenti rivincite gelosie tentativi pranzi al sacco passeggiate solitarie ecc.ecc. No, si dice che i diritti cessano. Ah, loro, i diritti. Certo, loro, cessano. Le persone, in questa legge, non sono mai entrate.

 

Allegati

testo_dico.pdf